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Tabucchi torna ad apparirci in una sconcertante luce di mistero, cioè per quello che essenzialmente è: uno dei pochi che il Novecento ha avuto la volontà e la buona grazia di non lasciarlo intatto. Perché si è posto dietro il Novecento, oltre quella linea d'ombra, quel margine di immediata riconoscibilità che è il suo aspetto rassicurante e la sua buona coscienza. Tramando coi Sogni, con il Doppio, con l'Altro e il Possibile ha portato a estremo compimento quello che il Novecento esteriore aveva solo abbozzato: una poetica dell'ulteriore. O per così dire, una poetica dell'interiore dell'ulteriorità. In queste pagine ne abbiamo l'ennesima prova. Tabucchi parla, e nel parlare spiega. Ma nello spiegare e parlare, come sempre, allude e non proclama, non sillogizza. Molto del suo animo si svela, molta sua personalità si appalesa. Ma molto altro torna a richiamare quelle lontananze, quelle ulteriorità, quell'ombroso altrove che nessun discorso razionale lineare è in grado di suscitare. Questo è l'elemento magico di Tabucchi: farsi ascoltare e amare senza che mai ben si capisca o sappia, o si voglia capire, che cosa esattamente amiamo di lui. E nulla come un amore inconsapevole delle proprie cause è probabilmente amore. Prefazione di Paolo Di Paolo.