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Tutto è irregolare in Domingo. Il viso, «costruito su triangoli, sporgenze, ombre scoscese»; il passo sbilenco di volpe; i quarant'anni lunghi e stretti come il suo profilo. La sua è una grande figura di protesta e di disubbidienza. È l'ultimo esemplare umano a non adattarsi al mondo. Vive di invenzioni, cabale e furberie perfette. È il re dei picari, dei puttanieri e dei bugiardi, un ladro solitario e originale, un artista della truffa. Ha una fidanzata eterna e angelica che possiede un camioncino e lavora dietro un banco di torroni, ai margini di una baracca per il tirassegno e di un ottovolante. Ma Domingo è diverso dagli altri: sente l'aria di vetro in cui si muove; la sua pena è la faccia del mondo che si sgretola. Finché, un giorno, una spina lacera «l'involucro ammuffito del suo cuore» e lo porta a giocarsi il destino con un lancio di dadi: rapisce una giovanissima zingara, nata con il cuore spostato da una parte. La ragazza ha la cera azzurrata di una candela che si spegne, le labbra color delle more e un sorriso d'ala di rondine. Tra coltelli, premonizioni e inseguimenti, in una Torino notturna e luciferina che ricorda la Parigi surreale di Boris Vian o la Mosca di Bulgakov, le ore passate con lei gli restituiscono il precipizio della vita e l'avventura di cui non ha perso la smania. Con una lingua irregolare e fantasiosa quanto il suo personaggio, Giovanni Arpino tributa il suo omaggio al genere fantastico e compone una favola misteriosa come una mappa dei segni incisi su una mano. «Domingo il favoloso» è una storia di stregonerie e di angeli custodi, che celebra il sopravvivere dell'incantesimo in un mondo disincantato. Postfazione di Darwin Pastorin.