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Evelyn Waugh, negli anni Trenta, delineò tra il serio e il faceto una casistica del viaggiatore nordeuropeo che, nei secoli, si è avventurato dalle nostre parti. Si comincia col superstite del Grand Tour: un giovanotto bennato che sfida sempre qualcuno a duello, ha parecchie avventure erotiche e alla fine torna a casa, pronto per incarichi legislativi. Si passa poi al viaggiatore borghese, che dà avvio all’orrendo traffico di souvenir e trova più conveniente vivere all’estero. E si finisce col viaggiatore novecentesco, che parla con la povera gente nelle osterie e vede nella diversità dei tipi la struttura e l’unità dell’Impero romano. Viaggiatori diversi, ma tutti con la stessa convinzione di trovarsi in un Paese dalla smodata quantità di bellezza, straripante fino a perdersi. Da Goethe a Auden, attraversando i Grand Tour che hanno esplorato, interpretato e creato l’identità italiana, Mario Fortunato rivolge il suo sguardo «straordinariamente inedito» al «discorso amoroso» che da secoli perdura tra la nostra Italia e l’Italia degli altri.